La ricostruzione del delitto di via Segato del 31 dicembre 1980, quando le BR uccisero il generale Galvaligi, stretto collaboratore di Alberto Dalla Chiesa
Tratto da coreonline.it
“Due giovani assassini”, un mazzo di fiori, qualche bottiglia di vino e due colpi al cuore. Questi gli ingredienti dell’omicidio del generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi, l’ultima vittima mietuta dalle Brigate Rosse nel 1980. La scena del crimine è la silenziosa via Girolamo Segato, alle spalle di piazza dei Navigatori, quartiere Ardeatino. Una zona residenziale e benestante, dove alcune delle eleganti palazzine furono destinate agli esponenti della classe politica e ai funzionari delle forze dell’ordine e, per tali ragioni, chiamata dai vicini abitanti della borgata Tor Marancia “palazzi dei senatori”. Una zona tranquilla, forse troppo, perfetta per un agguato.
Il mazzo di fiori. La sera del 31 dicembre due giovani suonarono al citofono di casa Galvaligi. Il portiere li avvertì che il generale e la moglie sarebbero tornati più tardi. Galvaligi, che si era recato alla messa serale della vicinissima chiesa di Santa Francesca Romana, incontrò i suoi assassini intorno alle ore 19. Il delitto di via Segato ricordò, per modalità, l’esecuzione del giurista tedesco Gunther von Drenkmann nel 1974 messo in atto dalla Badeer Meinhof, ucciso sulla soglia di casa dopo aver ricevuto un mazzo di fiori per il suo compleanno. Con le stesse modalità i due brigatisti Remo Pancelli e Pietro Vanzi avvicinarono Galvaligi nell’androne dello stabile di via Segato. Secondo la ricostruzione del delitto, avvenuto sotto gli occhi di parecchi testimoni, fu proprio il Vanzi a esplodere sei colpi di pistola, di cui due mortali, per poi darsi rapidamente alla fuga.
Le tre inchieste. L’omicidio Galvaligi deve necessariamente collocarsi tra le vicende del sequestro del giudice catanese Giovanni D’Urso e della rivolta carceraria di Trani. Il generale, perlopiù sconosciuto al di fuori del suo ambiente ma non dagli esponenti delle Brigate Rosse, fu nominato da Dalla Chiesa come vice comandante del Coordinamento dei Servizi di sicurezza per gli istituti di massima sicurezza, ruolo svolto in prima persona per soffocare la rivolta del carcere di Trani, durata due giorni (28-29 dicembre 1980). Acerrimo nemico delle BR (contribuì all’arresto di Renato Curcio), con la violenta repressione nel carcere pugliese, Galvaligi firmò di fatto la propria condanna a morte. Il suo omicidio ebbe infatti un filo diretto con il sequestro del magistrato Giovanni D’Urso, rapito dalle BR nell’anniversario della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre, appena due settimane prima. Nel comunicato n° 1 dei brigatisti D’Urso venne accusato di essere “il boia, aguzzino di migliaia di proletari”, cioè responsabile delle violenze subite dai detenuti nelle carceri italiane. Ma nel turbine della vicenda Galvaligi finì anche il noto giornalista de “L’Espresso”, Mario Scialoja, accusato di favoreggiamento per aver ricevuto dal leader brigatista Senzani il memoriale-intervista di D’Urso durante la sua prigionia.
I funerali di Enrico Galvaligi si tennero il 2 gennaio del 1981 a San Paolo, presso la Regina Apostolorum. Le richieste dei brigatisti, tra le quali la chiusura del maxi carcere dell’Asinara, la “seconda Alcatraz”, non vennero ovviamente soddisfatte. Nel giugno del 1983 Pietro Vanzi venne arrestato in Prati. Processato insieme a tutta la seconda generazione delle BR, non sfuggì all’ergastolo. Tornato in semi-libertà dopo dodici anni di reclusione (1995) morì di malattia nel 2003. D’Urso venne liberato il 15 gennaio e ritrovato in catene in via del Portico d’Ottavia dopo 34 giorni di prigionia. Il maxi carcere dell’Asinara fu dismesso solo nel 1998. A Enrico Riziero Galvaligi venne intitolato lo slargo e una stele a pochi metri dalla sua abitazione.
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