La ricostruzione dell’omicidio di Raffaele Caruso, uno dei delitti più feroci e oscuri negli anni della faida tra il clan dei Proietti e la banda della Magliana
Tratto da coreonline.it
Una Fiat 127 in fiamme in via Melloni, una parallela di via Pincherle, trovata la sera del 22 gennaio 1983; una Giulietta Alfa Romeo, con a bordo un cadavere, rinvenuta in Lungotevere Dante la mattina seguente; un coltello “tipo scout” ritrovato a poche decine di metri dal luogo dell’esecuzione. Questi gli elementi da cui partirono le difficili indagini sulla morte di Raffaele Daniele Caruso, ucciso con quindici coltellate nell’area dell’ex Cinodromo.
Il personaggio e la faida. Nato a Torino nel 1945 e residente a Ostia, Raffaele Daniele Caruso era un ex impiegato del catasto entrato nell’ambiente della malavita romana a cavallo degli anni ’70 e ’80. Operativo nella zona di Ostia, Caruso aveva contatti con la banda di Maurizio Abbatino e con il bar di via Chiabrera. “Era uno che sapeva stare al suo posto, che non creava problemi” ricorderà un esponente della banda della Magliana, Vittorio Carnovale, interrogato nel 1994. Eppure il giovane di piazza Gasparri qualche problema l’aveva creato. I primi anni ’80, a Roma, sono gli anni dello scontro tra il clan dei “pesciaroli” di Monteverde, i Proietti, e coloro che volevano vendicare il leader storico della banda della Magliana, Franco Giuseppucci, ucciso in piazza San Cosimato nel 1980. Una guerra dovuta ma che, però, ledeva gli affari della banda, visto la crescente attenzione delle forze dell’ordine puntata sui vari agguati e omicidi che si susseguirono fino alla fine del 1982. Non c’era spazio per iniziative individuali e ogni “sgarro” poteva costare caro.
L’antefatto. Nella serata del 14 dicembre 1982 veniva ucciso con due colpi di pistola, a Ostia, Mariano Proietti, ventiquattrenne figlio di Enrico detto “er cane”, sopravvissuto a un agguato pochi mesi prima. Tutte le ipotesi portarono all’ennesima ritorsione della banda della Magliana, il che preoccupò non poco Abbatino e compagni perché quell’omicidio portava sicuramente una firma diversa. Si sa ancora poco della morte del giovane Proietti; che si tratti di un giro di affari circoscritto alla sola zona di Ostia è possibile ma non dimostrabile. Fatto sta che nel giro di poche settimane, al bar del quartiere San Paolo, giunse la notizia che ad eliminare il Proietti fosse stato proprio un conoscente della banda, il trentasettenne Caruso.
La trappola. Come già accennato, il Caruso conosceva il bar di via Chiabrera, il quartier generale della banda, frequentato soprattutto da Claudio Sicilia detto il “vesuviano”, residente a pochi metri di distanza. Fu proprio il Sicilia ad attirare nella trappola il Caruso tramite un altro conoscente, Roberto Pergola. L’errore commesso dal Caruso fu considerato talmente imperdonabile che furono proprio i personaggi più importanti della banda ad arrogarsi il compito di punirlo. Mentre Pergola, ignaro di aver accompagnato il suo amico sul patibolo, veniva intrattenuto al bar di via Chiabrera, Caruso si allontanò a bordo della sua Giulietta con Edoardo Toscano e un’altra persona che Sicilia, pentitosi tre anni dopo, indicherà come Gianni Girlando, “il roscio”, un ex del gruppo di Acilia di Nicolino Selis. Dietro la Giulietta, la Fiat 127, rubata, guidata da Maurizio Abbatino. L’incontro, dichiarò lo stesso Pergola, doveva servire a mettersi d’accordo su una partita di droga. A meno di un chilometro di distanza, invece, ebbe luogo l’esecuzione: Caruso fu prima vittima di uno strangolamento, poi venne colpito da una quindicina di fendenti con quel coltello che venne poi rinvenuto tra i canneti del Lungotevere Dante, nei pressi del centro sportivo dei Vigili Urbani. Datisi poi alla fuga a bordo della 127 guidata dall’Abbatino, i tre si allontanarono definitivamente a bordo di un’altra vettura (ipotesi questa non confermata) guidata, secondo il Sicilia, da un altro esponente della banda. La Fiat 127 venne invece data alle fiamme in via Melloni, una via anonima e poco distante dal luogo del delitto.
Due versioni. Di questo omicidio non si seppe praticamente nulla fino al pentimento di Claudio Sicilia, arrestato nel 1986. E così si tornò a parlare di quel delitto troppo anonimo e senza logica. D’altronde sarebbe stato difficile giungere a una verità per certi versi paradossale: l’omicida di un Proietti punito proprio dai nemici di quest’ultimi. La versione di Sicilia, soprattutto sulla ricostruzione dell’omicidio e nelle sue modalità, non fa una piega. C’è solo un dato, però, che non può essere trascurato: che ruolo ebbe lui stesso nell’esecuzione di Caruso? Secondo la sua versione, Sicilia attirò nel bar Caruso e Pergola ignaro delle intenzioni di Abbatino e Toscano e dichiarò davanti ai giudici di aver passato ben due ore a conversare con l’amico del Caruso nel bar, mentre il delitto veniva consumato sul lungotevere. Ma nel 1992, un anno dopo l’eliminazione dello stesso Sicilia in un negozio di scarpe a Tor Marancia, il grande pentito Maurizio Abbatino diede la sua versione. Una ricostruzione, quella dell’ultimo grande boss “sopravvissuto” della Magliana, pressoché identica a quella del Sicilia, ma con un particolare importante: invece di Girlando, fu proprio Claudio Sicilia a salire a bordo della Giulietta di Caruso con il Toscano e fu proprio il “vesuviano” a tentare (non riuscendo) lo strangolamento, con un filo elettrico, nei confronti del Caruso, ucciso invece dalle quindici coltellate di Edoardo Toscano, che sedeva alla destra della vittima. La versione dell’Abbatino è stata considerata verosimile dai giudici, visto anche l’assenza di secondi fini nei confronti del Girlando, ucciso nella pineta di Castel Porziano nel maggio del 1990. Scagionarlo sarebbe servito a poco.
Questa, a distanza di quasi trent’anni, potrebbe essere la ricostruzione di un delitto spietato. Qualche quotidiano, come riporta il giornalista Giovanni Bianconi nel suo libro “Ragazzi di malavita”, titolò l’episodio come “il delitto del Cinodromo”, nonostante il fatto fosse avvenuto a duecento metri di distanza dalla pista delle corse dei levrieri. Ciò scatenò le proteste del direttore del Cinodromo che cercò di salvare un’attività che nei primi anni ’80 si stava avvicinando alla sua definitiva chiusura. In realtà di quel delitto si parlò poco. In quei giorni fu firmato l’accordo tra governo e sindacati per il protocollo globale d’intesa sul costo del lavoro; si concludeva il processo Moro, “uno e bis”, con ben 32 ergastoli inflitti alle BR; il fenomeno del tennis Bjorn Borg si ritirava, a soli 26 anni, dal professionismo dopo aver vinto tutto. La notizia dell’omicidio di un pregiudicato di piazza Gasparri, che “se n’era ito” o che “ era stato parcheggiato” come disse trionfalmente il Toscano di ritorno al bar di via Chiabrera, passò rapidamente in secondo piano.
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