lunedì 27 luglio 2015
Marcello Colafigli, “er bufalo” di San Paolo
Venticinque anni fa l’arresto di “Marcellone” in via Giustiniano Imperatore; l’epilogo di uno dei boss più emblematici della Banda della Magliana
Tratto da coreonline.it
26 luglio 1990, via Giustiniano Imperatore, quartiere San Paolo. Una Fiat Uno Turbo viene accerchiata da agenti in borghese della squadra mobile. L’uomo alla guida ingrana la retromarcia ma una raffica di mitra ne blocca la fuga. Nell’utilitaria non c’è un pregiudicato qualunque, c’è Marcello Colafigli, nome di spicco della Banda della Magliana, evaso l’8 luglio dell’anno precedente dall’OPG di Reggio Emilia. Nel cruscotto una pistola semiautomatica e due silenziatori. Con lui viene tratto in arresto un ex terrorista neofascista dei NAR, Fausto Busato, all’epoca in semilibertà. La stampa trattò l’episodio come l’arresto dell’ultimo boss “dei perdenti”, dei “magliani” appunto, che di fatto chiuse il sanguinoso capitolo delle faide interne tra quest’ultimi e il clan dei “testaccini” guidato da “Renatino” De Pedis.
“Marcellone”. La figura di Marcello Colafigli è indubbiamente entrata nel mito grazie alla fortunata serie televisiva “Romanzo Criminale”. È lui la fonte d’ispirazione del “bufalo”, personaggio testardo e coraggioso, violento e vendicativo ma, al contempo, generoso e leale. Un profilo di “malavitoso romantico” che, forse, poco si addice ad un pericoloso criminale di trent’anni fa. Scarse sono le sue note biografiche: nato a Poggio Mirteto nel 1953, orfano di madre, sopravvissuto a un difficile parto gemellare. Molto più interessante la descrizione che ne fa Antonio Mancini, “l’accattone”, altro veterano sopravvissuto della prima Banda della Magliana: “Marcello Colafigli aveva studiato da geometra, ma fisicamente era una specie di orso. Un uomo dotato di una forza disumana… ma se lo rimproveravo per qualcosa, si faceva rosso in viso come un bambino e la peggiore parolaccia che conosceva era perbacco” (“L’Unità” 10/12/2007). Una specie di orso, una forza sovraumana, ben presto Marcello diventò “Marcellone”. Molto vicino a Franco Giuseppucci, Colafigli si ritagliò un ruolo importante nella neonata organizzazione criminale, partecipando ad omicidi eccellenti, come quello di Franco Nicolini nel 1978, e al sequestro Grazioli dell’anno precedente. Come si evince dall’ordinanza di rinvio a giudizio nel processo in cui è stato condannato all’ergastolo, Colafigli fu definito la “mente militare”, il “braccio armato” della banda, anche se non di rado si occupò di tessere nuovi legami con altre organizzazioni criminali per quanto riguardava il commercio delle sostanze stupefacenti.
Quartier generale. Sul finire degli anni ’70 il quartiere di San Paolo era molto lontano dalla realtà universitaria dei nostri giorni. Una periferia come tante, dove il fenomeno dell’eroina cominciava ad abbattersi sulle nuove generazioni decimandone vite e potenzialità. Ed è proprio in questa realtà che Colafigli crebbe e scelse la via del crimine, divenendone ben presto un boss. Già agli albori, la Banda della Magliana si servì di due bar strategici nella zona di Roma sud: il Bar Fermi (zona Marconi), vicino all’abitazione del leader Giuseppucci, e il bar di via Chiabrera, a due passi dalla residenza di “Marcellone”. Sarà poi lo stesso Colafigli a far entrare nell’organizzazione due nuovi elementi, che gravitavano nella “sua” zona, come Gianfranco Sestili e Claudio Sicilia, con il secondo che si ritagliò un ruolo chiave nel giro degli stupefacenti nella prima metà degli anni ’80. Dopo la morte di Giuseppucci il bar di via Chiabrera divenne sempre più la base operativa per qualsiasi tipo di attività criminale, ma non rappresentò di certo un’eccezione nel quartiere. Secondo alcune dichiarazioni della pentita Fabiola Moretti, la donna di Danilo Abbruciati prima e di Antonio Mancini poi, alcune importanti trattative ebbero luogo ai tavoli di un ristorante denominato “i Sardi”, mentre, in più occasioni, Colafigli e Sicilia si servirono dell’attività di un orologiaio sito in una traversa di via Chiabrera per nascondere armi e droga. Connivenze, volute o meno, che non fanno che confermare l’incontrastato controllo della banda sul territorio.
Vendette e “follia”. “Era uno studentello quando ha conosciuto Giuseppucci e s’è invaghito di quest’uomo, pieno de Rolex… ed è voluto entrare in questo gruppo. Poi se l’è guadagnata, lui era sempre in prima linea…”. Così Antonio Mancini descrive l’ammirazione che il Colafigli nutriva nei confronti del “negro”, ucciso in piazza San Cosimato nel settembre 1980. “Era diventata un’ossessione” spiegò Mancini riferendosi al desiderio di vendetta di quello studentello di periferia, divenuto ormai un pericoloso criminale pronto a uccidere. Seguirono i fatti di via di Donna Olimpia, l’assassinio del “pescetto” Maurizio Proietti e la galera con l’accusa di omicidio. Nei primi anni ’80 la Banda della Magliana era ancora forte, tanto da ottenere perizie mediche false e il favore di giudici corrotti. Per Colafigli si aprì la lunga filiera dei manicomi giudiziari dove trascorse gran parte degli anni ’80. Il desiderio di vendetta, però, si farà di nuovo sentire, più forte di prima. Con l’avvento del clan dei “testaccini” di Enrico De Pedis e Enrico Nicoletti la banda si trasforma, vestendo i panni di un’organizzazione più imprenditoriale, meno di strada, più vicina al potere, più “mafiosa”. Di fatto, vennero meno gli aiuti economici per coloro che stavano dietro le sbarre.
Fu il preludio della fine, e della guerra interna all’organizzazione, che toccherà il suo apice con l’assassinio di Edoardo Toscano, fedele al gruppo della Magliana, freddato a Ostia il 16 marzo del 1989. Quattro mesi dopo Marcello Colafigli, approfittando di un permesso, evade dal manicomio giudiziario di Reggio Emilia. Avvicinatosi ad alcuni ex esponenti dell’eversione nera come Antonio D’Inzillo, Colafigli compie alcuni viaggi in meridione e in Olanda, probabilmente per affari riguardanti lo spaccio di droga. Cambia anche la sua identità: sul suo documento falso spicca il nome di un tale Vito Berdini. Pochi mesi dopo, il 2 febbraio 1990, “Renatino” De Pedis viene ucciso in un agguato nei pressi di Campo de’ Fiori. Tra gli autori materiali verrà riconosciuto proprio D’Inzillo, fuggito poi all’estero e morto a Nairobi, nel 2008, in circostanze misteriose. Per gli inquirenti lo zampino di “Marcellone” fu più che evidente. La sua storia da latitante finirà a poche decine di metri da casa sua, in via Giustiniano Imperatore, il 26 luglio di venticinque anni fa.
Il bufalo e le “bufale”. Sessantadue anni, quasi quaranta passati da recluso. Eppure bastano dei bravi scrittori, registi o attori per confondere, per fare confusione. Nella città di Roma, poi, il tema si è mantenuto caldo: se con “Romanzo Criminale” si è passati dalla realtà alla finzione, con “Mafia Capitale” sembra invece di essere passati dalla fiction alla realtà. E il romanzo prosegue, anche sulle tortuose vicende giudiziarie di Marcello Colafigli, alle prese con un Fine Pena Mai e una causa in corso per la rideterminazione della pena presso la Corte Europea di Strasburgo. Nell’ottobre dello scorso anno trapelò la notizia infondata di un’imminente liberazione del “bufalo”, smentita prontamente pochi giorni dopo. Ma è bastato veramente un nulla per tornare a parlare di vendette, di “cecati” che tremano, di criminali che aspettano. Senza contare che il “Marcellone” tanto atteso è un uomo in qualche modo sopravvissuto all’impossibile vita degli ex OPG, ora Rems, dove rischia di rimanerci a vita, fino alla fine dei suoi giorni, come altre centinaia di persone considerate non dismissibili, magari senza ergastoli, soprattutto senza più dignità. Un finale, forse, poco romantico, troppo poco criminale, un finale triste che non fa abbastanza audience.
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